Chicchi di riso pieni e biondi sotto il tenue sole settembrino e la leggera pioggia di ottobre annunciano che il riso è maturo. Cereale di origine orientale, la prima zona in Italia ad essere sottoposta a tale coltivazione fu, in epoca moderna, la Sicilia per abbattere i costi di rifornimento di un cereale esotico. La risicoltura a metà del XVI secolo apparve in Piemonte e in Lombardia. Lentamente il riso, insieme alla meliga e al grano, soppiantò le usuali coltivazioni di avena, miglio, segale, frumento e legumi, fra cui i ceci. Ognuno dei prodotti citati meriterebbe una storia approfondita. Cominciamo a raccontare quella del riso.
La coltivazione risicola nella provincia di Vercelli occupa pressoché tutto il territorio che va da Lenta fino al Po, prosegue nella Lomellina, per allargarsi al Novarese e al Biellese. Per ognuna di queste zone i tempi e le modalità di crescita della piantina sono diversi; mentre in quelle più a sud, come Trino, il riso matura prima e ha dei chicchi più grossi, nell’alto Vercellese la raccolta è posticipata. Quest’ultima zona è adibita alla risicoltura solo da pochi; un tempo infatti il riso non si spingeva oltre la linea Ghislarengo e Masserano (e questo riso veniva già ritenuto di qualità lievemente peggiore rispetto a quello che cresce nei paesi più a sud). A parere dei buongustai il migliore riso è il riso di Baraggia, la vasta area – estesa almeno 40.000 ettari – in cui le acque provenienti dai ghiacciai del Monte Rosa creano un felice connubio con la calura estiva dando esito a un cereale sopraffino.
Parlando delle zone risicole non si può tacere del disboscamento: iniziato in modo sistematico fin dal Medioevo con i ronchi (ossia arature) della boscaglia, fino all’Ottocento le terre non coltivate rimanevano una quantità considerevole in virtù dell’indispensabile legna da ardere, dei frutti (castagne) e degli animali che si alimentavano nel bosco (maiali, cacciagione). Ma per le potenti macchine agricole, giunte in Italia negli anni del boom economico post-bellico, le terre agricole erano eccessivamente ristrette: basti pensare che l’unità di misura di superficie piemontese, la giurnà (giornata), corrisponde a 2810 m2, ossia quanto terreno una coppia di buoi riusciva ad arare in un giorno. Un’inezia per i moderni trattori.
Nuovi e più comodi combustibili, nuovi mezzi agricoli e un nuovo stile di vita hanno votato all’abbattimento l’area boschiva e al quasi totale abbandono dell’abitazione più tipica del Piemonte: la cassìna (cascina). Isolate poiché circondate dalle terre di loro proprietà, un tempo erano abitate da numerosi nuclei famigliari composti da parenti di primo e di secondo grado che facevano capo a un pater familias. Nei tempi più remoti gli uomini e le donne desinavano separati (i bambini pure e si nutrivano per ultimi), separati si ritrovavano la sera nelle stalle, i primi per parlare e le seconde per ricamare la dote. In molte famiglie queste piccole opere d’arte prodotte dalle mani di tante nonne si sono tramandate di generazione in generazione e abbelliscono case moderne con sapori antichi. Nella cascina tutti – a qualsiasi livello d’età – contribuivano a curare gli animali e le colture.
Vediamo altre due innovazioni: il riso d’asciutto e i diserbanti. Entrambi hanno stravolto le modalità di coltivazione; niente mondine e niente acqua. Vedere le risaie in primavera senza o con pochissima acqua rende il paesaggio triste, e lo stesso vale per le cascine abbandonate o cedute a cittadini (solitamente Milanesi). Il mare a quadretti dovrebbe caratterizzare questa parte d’Italia e la sua assenza si percepisce fortemente. Per contro, ricordiamo che si è scelto di coltivare il riso d’asciutto per via di un notevolissimo risparmio di acqua.
Delle mondine non possiamo dire la medesima cosa: è vero, quelle risaie che un tempo pullulavano di gente ora sono vuote. “Qui c’era la vita” raccontano i vecchi “andavi in risaia per lavorare e per parlare, incontravi tutto il paese. Strappavamo le erbacce insieme, e insieme curavamo i fossi. C’era anche tanta ombra. Tanti alberi sotto i quali si mangiava, si cantava e si stava insieme. Era pieno di animali: api, uccelli, pesci, rane.” I quali concludono con quella tipica amarezza nostalgica di chi parla di un mondo sbiadito e forse perduto per sempre “Ora non c’è più nessuno: gli alberi sono stati tagliati, non ci sono più animali e le persone stanno nelle loro case”. Per quanto da queste parole appaia un quadro idilliaco lavorare in risaia era terribile: consisteva nello stare chini per ore con i piedi a mollo in acqua gelata la mattina e bollente il pomeriggio. Il sole batteva sul corpo e la calura, le zanzare, la fatica, il dolore contribuivano a rendere sgradevole questo lavoro stagionale. Le mondine solitamente erano prelevate dalla zona prealpina oppure dal nord-est, veniva dato loro un posto letto nel fienile dei padroni e non di rado intrattenevano storie d’amore con i ragazzi del luogo. Potevano essere assunti anche uomini per curare gli animali da pascolo, prevalentemente vacche da latte.
Testo e fotografie di Michela Ferrara