Il comune di Prazzo (Prass in piemontese), conta circa 200 abitanti, si trova in alta Valle Maira a un’ora di distanza da Cuneo. Prazzo inferiore ospita il Museo della canapa e del lavoro femminile. Allestito al primo piano di una palazzina in centro paese è aperto tutto l’anno grazie alla disponibilità di un valente gruppo di volontari. Responsabile e curatrice dell’istituzione museale è Luciana Berardi, insegnante elementare e vicesindaco del comune di Prazzo.
In una lunga intervista la signora Berardi ha tracciato la storia della piccola località montana e della sua gente, ha spiegato la nascita del museo e quali sono i progetti futuri.
“Il museo della canapa è nato grazie ad un gruppo di volontari.
Nella palazzina in cui si trova il museo un tempo c’era l’antica Pretura, poi la caserma dei Carabinieri e, da alcuni anni, s’era liberato un alloggio al primo piano. Fino al 1950 la canapa era una risorsa eccezionale perché con essa le donne riuscivano a ricavare quasi tutta la biancheria e i vestiti per la famiglia.Nei valloni laterali quest’attività è durata più a lungo perché c’era meno commercio con la bassa valle, mentre l’asse centrale era già collegato con Dronero per cui sono arrivate prima determinate materie come il cotone e il nylon. Sembra che in passato coltivassero anche il lino. Per cui in alcuni casi la lavorazione era mista: canapa e lino.
Quasi tutte le famiglie avevano un campo, le persone andavano a coltivare sin oltre i 2000 metri dove c’erano terreni talmente in pendenza che si usavano i ramponi sotto le scarpe per falciare, perché era pericoloso e si rischiavano rovinose cadute”.
Seppur il museo è ben avviato da oltre un lustro, il lavoro dei volontari non è terminato e con caparbia e tanta buona volontà stanno ancora raccogliendo testimonianze fra i residenti in paese e nelle località limitrofe, fra persone anziane che parlano la lingua locale e hanno ricordi di quando coltivavano la canapa.
“Gli intervistati raccontano che i campi di canapa più vicini alle case erano molto fertili – riprende Berardi – le piante arrivavano a due metri d’altezza, mentre i campi più in alto venivano usati per la fienagione, erano perciò necessari tanti appezzamenti da coltivare. Si andava a prendere il foraggio per gli animali anche a tre ore di distanza, partendo alle quattro del mattino. In una giornata venivano portati a valle tre carichi di fieno. ”.
Quali erano le vostre fasi di lavorazione della canapa?
“La canapa veniva seminata a fine aprile, inizio maggio a seconda se i luoghi erano soleggiati o meno. Si arava, si zappava, si concimava, si gettavano i semi a spaglio e si ricoprivano con dei rastrelli per evitare che gli uccelli li mangiassero. Veniva anche messo lo spaventapasseri che nella nostra lingua si dice “La pou dal ciarbu”. La pianta femmina, che matura prima, veniva sradicata o tagliata con il falcetto. Occorreva poi togliere le foglie secche e ricavare la semenza, da usarsi l’anno dopo. I semi si passavano con un setaccio e i più piccoli erano gettati via, lontano dai posti accessibili agli animali, in quanto si diceva che procurassero aborti spontanei se ingeriti dalle gestanti. Le foglie, invece, venivano raccolte su teli, poi messi nei solai come per essere utilizzate lettiera per gli animali”.
Veniamo al museo, quando è stato fondato?
“È stato inaugurato nel luglio 2007; è aperto tutto l’anno con ingresso libero. Subito abbiamo allestito 3 camere (speriamo di arrivare a 5 in futuro) con materiale frutto di donazioni, assolutamente originale, del secolo scorso o anche di epoca precedente. Oltre alla canapa, sono esposti altri pezzi interessanti: come una camicia e un abito da sposi del 1850. Quest’abito è nero, di lana cotta confezionata in zona. Questi vestiti da sposa erano usati il giorno delle nozze e la domenica precedente, quando si faceva l’annuncio in chiesa; accompagnavano poi le persone tutta la vita: per i battesimi, per i matrimoni e, anche quando si moriva. Ne sono rimasti pochissimi esemplari. L’abito ci serve per capire che la costituzione delle persone era diversa da quella di oggi, avevano per esempio una vita più stretta ed erano basse di statura”.
A febbraio 2013 lo stabile è stato ristrutturato, mentre oggi prosegue la raccolta delle testimonianze: partita poco dopo il 2000 è stata fatta prima solo su audio cassette, ora le interviste sono video filmate dal regista piemontese Sandro Gastinelli; questo lavoro serve per avere una documentazione su supporto digitale in lingua locale, che è un misto tra l’Occitano e il Provenzale. “Noi lo chiamiamo “a nosto modo”. Ci sono suoni e termini specifici che noi del luogo, più giovani d’età, non conosciamo – sottolinea Berardi – Ho la fortuna di avere una suocera che a suo tempo aveva filato e col regista Gastinelli abbiamo girato un video in lingua che è stato tradotto. La documentazione posseduta è ricca, dà soddisfazione, ma richiede un grande sforzo accumularla”.
Perché oggi la canapa in Italia stenta a decollare?
“Da noi si è estinta poco dopo il 1950 perché sono giunte altre fibre naturali come il cotone. La poca gente rimasta dopo lo spopolamento ha scelto altri mestieri. I battitori, per esempio, sono andati persi. I battitoi, invece, sono andati distrutti con l’alluvione del 1957.
È venuto a mancare il sistema per lavorare la canapa. Filare la canapa è più impegnativo che filare la lana, perché occorreva sempre bagnarsi le dita.
Infatti, gli anziani ricordano che, poco tempo dopo aver iniziato a filare, la bocca era asciutta, così chi poteva mangiava un pezzo di pane secco per stimolare la salivazione o, i più fortunati, un pezzetto di mela. Nel corso delle interviste abbiamo scoperto che solo una signora aveva una spugnetta inumidita con cui si bagnava le dita. Altra difficoltà nella lavorazione era la battitura, l’operazione che si effettuava prima di portare la fibra al macero; in questa attività si sollevava tanta di quella polvere che gli uomini non ci volevano andare, per cui veniva svolta solo dalle donne. Queste, quando rincasavano dopo alcuni giorni, non avevano più un fil di voce, quella era l’occasione per bere un po’ di vino per alleviare il bruciore alla gola.
Lavorare la canapa, dunque, era un’attività redditizia, ma molto faticosa. Anche i pettini per cardare la fibra non venivano fatti usare dalle ragazzine per via dei denti di ferro particolarmente aguzzi, con i quali potevano facilmente ferirsi. Era un lavoro da esperti.
La ripresa oggi è difficile per via delle leggi assurde. Le disposizioni amministrative ci chiedono di coltivare un ettaro di terra, ma noi in montagna non abbiamo appezzamenti così grandi. Abbiamo allora contattato degli agricoltori di Cuneo perché lavorassero loro la canapa; questi hanno accettato, ma hanno avuto dei controlli da parte delle forze dell’ordine poichè qualcuno in mezzo al canapaio aveva coltivato piante di canapa di varietà indica. Ora è in corso un processo.
A parte questo problema non c’è smercio. Noi italiani non siamo ancora entrati nell’ottica di sfruttare al meglio la canapa. Ecco, il problema è questo. Mentre in Francia e in Germania la impiegano in cosmesi, nella bioedilizia e in altri settori, in Italia, al momento, non riusciamo. Quello che ci vincola sono le leggi. Per poter effettuare la semina devi avere il certificato di chi ti ha rilasciato i semi, devi avere un campo e recintarlo. Devi comunicare l’avvenuta semina, la nascita delle piante ed essere disponibile giorno e notte per eventuali controlli da parte delle forze dell’ordine. Ecco cose burocratiche, assurde direi. Inoltre non ci sono ancora industrie che lavorano la canapa.”
Il futuro lo vede rosa?
“In futuro… può capitare di tutto- risponde sorridendo Berardi – Non dobbiamo dimenticare comunque che il lavoro manuale non è da tutti. Il costo dei prodotti è elevato, in quanto non sono fatti in serie. C’è anche il problema della concorrenza cinese che è secondario, ma non da sottovalutare. Dunque, finché non cambia la mentalità ai piani alti, una ripresa della canapa in toto la vedo ancora lontana”.
Liza Binelli, tesi di laurea – Testo e foto tratti dal cap V : “Raccontare la canapa: i musei in Piemonte”
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