Racconti inediti
In questa sezione si raccolgono testi inediti: chi lo desidera può inviare i propri. Possono essere leggende rielaborate, o racconti relativi a fatti e personaggi meritevoli di essere meglio conosciuti.
Da:
Carlo Alberto e i suoi cani
Il vecchio Carlo Alberto era uno dei pastori che, ogni anno, frequentavano la nostra fattoria. A detta dello zio Augusto – che lo chiamava “Barba Carlo” – conosceva il suo mestiere meglio di tutti gli altri mandriani. Non credo che il giudizio positivo dipendesse dagli elogi che quell’uomo dalla barba ormai bianca faceva del vino della nostra cantina: ne beveva con moderazione e, prima di partire, ne comprava quantità assai modeste.
Il Barba Carlo arrivava in autunno, alla testa del suo gregge, in genere tenendo per la cavezza un asino carico di tutto quanto gli serviva per vivere: un telo impermeabile, qualche coperta, un gigantesco ombrello blu e il paiolo della polenta. Accanto a lui, uno o due cani. Dietro, altri pastori sparsi qua e là e il resto della mandria. Nella mia fantasia, le pecore rappresentavano la truppa e i cani erano gli ufficiali: a un suo cenno, infatti, dirigevano il gregge con la stessa efficienza e competenza di un comandante di plotone.
Il buon Carlo Alberto, ovviamente, era il generale e, in effetti, sapeva farsi rispettare da tutti. Per spostare la mandria fischiava e, alzando il bastone, indicava la direzione da seguire. Muovere centinaia di animali, tenerli lontani dalle piante da frutto e dalle strade trafficate, farli passare su sentieri a volte difficili richiedeva una abilità oggi difficilmente immaginabile per cui… gli ordini non si discutevano: al fischio del comandante supremo i garzoni lanciavano a loro volta qualche grido, i cani abbaiavano, gli asini accovacciati si mettevano ritti, le pecore si raggruppavano e persino le poche e irrequiete capre si portavano nei pressi del loro padrone, o dei suoi aiutanti. Il vecchio Carlo Alberto non era autoritario, ma i suoi collaboratori gli riconoscevano una autorevolezza indiscussa: si trattava per lo più di allevatori dell’Alta Valle che – non potendo disporre, in montagna, del foraggio sufficiente per passare l’inverno – a volte lo seguivano con il loro modesto gregge nel lungo viaggio verso la Bassa. Passata la stagione fredda i pastori lasciavano le fertili pianure e ritornavano alle loro baite; il passaggio delle mandrie avveniva perciò due volte all’anno: in autunno gli animali diretti verso la pianura brucavano quanto restava nei prati ormai coperti di brina poi, in primavera, mentre risalivano le rive del fiume o percorrevano i sentieri più impervi, si accontentavano di quanto trovavano nei boschi. Per non danneggiare l’erba nuova dei prati o calpestare i seminativi erano infatti costretti a transitare lontano dalle coltivazioni.
Ogni anno verso novembre trovavo i pastori alla “Pianaccia” a sfruttare i ricacci dei prati, i rovi e le ultime mele cadute al suolo poi – nei giorni seguenti – li vedevo stazionare vicino alle case o nei campi ormai spogli. Quando, a turno, arrivavano alla fattoria si fermavano a chiacchierare. Non erano di fretta né preoccupati per i loro animali: venivano da noi per passare qualche ora in modo diverso e avevano lasciato qualcuno di guardia al gregge. Arrivavano con un piccolo regalo per la zia Rina, si accomodavano presso la stufa, mangiavano un pasto caldo e alcuni si ingozzavano di vino. Dopo un paio d’ore lasciavano la fattoria con le bisacce piene di quanto avevano comprato e se ne tornavano nei loro accampamenti improvvisati: il giorno dopo avrebbero potuto cucinare qualcosa di diverso e fare ancora un po’ di festa.
Anche per Carlo Alberto, gli insaccati cotti con le patate lesse come contorno interrompevano le consuete cene a base di polenta, latte e formaggio. In autunno, veniva a cena dagli zii almeno una volta, mangiava a crepapelle e, con l’occasione, faceva scorta di ogni ben di Dio: comprava lardo, pancette, insaccati, qualche barattolo di marmellata, rape e altri prodotti conservati sotto aceto. Poneva il tutto in sacche che il giorno dopo avrebbe caricato sul basto del proprio asino, quello che conduceva personalmente per la cavezza. Ovviamente, comprava anche un po’ di vino buono per sé e una certa quantità di vinello per i suoi aiutanti in campo. “Se gli dai un vino troppo forte – spiegava ogni volta – va a finire che si ubriacano.” Per la cena della partenza arrivava alla fattoria con indosso un vestito pulito, quello delle grandi occasioni. Così abbigliato, sembrava un gentiluomo di campagna in visita di cortesia: sui pantaloni di velluto, infatti, indossava una camicia di lana colorata e un giaccone grigio-verde “alla cacciatora”, con tanto di tasca sul dorso. La cena e le chiacchiere duravano almeno fino alle ventitré e, tra un boccone e l’altro, il vecchio Barba raccontava le sue ultime avventure. Beveva poco, parlava lentamente e, per conoscere i dettagli, bisognava porre domande brevi e precise. Ci informava soprattutto dei tentativi di furto che riusciva a sventare e, in particolare, aggiornava gli zii sulla salute dei suoi animali e della gente che aveva incontrato lungo la strada. Su dove avrebbe passato l’inverno era laconico: “… vado in giù – spiegava senza fornire troppi dettagli – dove c’è erba da mangiare e, se nevica, foraggio da comprare”. Dove e come avrebbe passato la stagione fredda, forse, non lo sapeva neanche lui. Quando, però, una sera, spiegò che sarebbe tornato ancora nella “cascina della vedova” la zia Rina gli pose , a bruciapelo, una domanda maligna: “… troverete un letto caldo?”
“Oh no! – rispose sicuro il Carlo Alberto – io dormo sempre all’aperto. Quando nevica molto e le bestie stanno in cascina, però, dormo nel fienile…e il mio cane mi fa la guardia.”
I cani del vecchio Barba Carlo mi affascinavano. Mi conoscevano bene e quando arrivavo nei pressi del suo accampamento, a volte neppure abbaiavano. Quella stessa sera gli chiesi un cucciolo: lo desideravo dai tempi delle prime trasmissioni televisive…
“Te lo do volentieri”, rispose. “Ti regalerò un piccolo della Grisa quando ripasserò in primavera… una femmina, così potrai salvare la razza. Sai, di cani così ce ne sono più pochi…”
“Calma brava gente – intervenne pronta la zia Rina – i cani mangiano tutti i giorni! Con quel che costano… possiamo mantenere un maiale in più!”.
“Ha ragione – le fece eco lo zio Augusto – e… in fondo in fondo… i cani a noi, a che cosa servono?”
Scherzava, ma non l’avevo capito. Ero un ragazzino di quindici anni, vivevo l’età del “nervo scoperto” e, a volte, ancora non afferravo il doppio senso delle frasi. Fu così che, quella volta (credo a torto) non la perdonai a nessuno dei due. “Il cane sarà mio e me lo alleverò io! Poi, quando vi scapperanno i maiali, o dovrete portare le mucche al manzo… vi aggiusterete. Io non ci sarò. Quanto a voi, signor Carlo Alberto, per favore… ricordatevi della promessa perché… se questa primavera non vi vedo con un cucciolo – conclusi – verrò a cercarvi… anche all’inferno”. Detto questo, uscii di corsa per non dar a vedere che stavo per piangere come un bambino piccolo. Fuori, accovacciata c’era la Grisa che aspettava il suo padrone. La accarezzai mentre mi scodinzolava, mi calmai e ritornai indietro. Mentre prendevo un pezzo di pane e qualche avanzo della cena per portarglieli, il buon Carlo Alberto mi strizzò l’occhio e bisbigliò di stare tranquillo: “… è fatta!”, concluse. La zia, invece, non mi rivolse la parola: era troppo impegnata a litigare con lo zio e lui… stava dalla mia parte. Mentre la cagna mangiava, la osservai con attenzione: aveva la pancia gonfia, avrebbe partorito a breve: “…. Mi raccomando Grisa, alleva bene i tuoi piccoli. Ci vediamo verso marzo…”
Per vedere i cuccioli, però, non fu necessario aspettare la bella stagione. A gennaio, mentre al “Sasso Marcio” seguivo le orme delle volpi udii dei guaiti strani e inusuali: due cagnolini con gli occhi semiaperti si trascinavano nella neve, visibilmente affamati. Seguendo le loro tracce, arrivai a una fenditura della roccia. “Vivono qui, pensai, ma… non vedo altri cani. Sembrano i figli della Grisa… che fine avrà fatto la loro mamma?” Li presi in braccio, li trasportai alla fattoria, li sistemai sotto una tettoia e diedi loro un po’ di latte. I cagnolini già riuscivano a mangiare qualcosa ma, per non correre rischi, radunai tutti i miei risparmi e corsi in paese a comprare un piccolo biberon. La bottegaia, ovviamente, voleva sapere a che cosa servisse:
“lo compro perché ne ho bisogno – tagliai corto – ho premura, ve lo spiego un’altra volta.”
Si faceva sera, coprii i cagnolini con del fieno e, senza fare troppa pubblicità all’accaduto, tornai in casa. La mattina dopo, accovacciata accanto ai suoi cuccioli, trovai la Grisa. Non credevo ai miei occhi: “…ma come mai sei qui? Perché non sei alla Bassa, con il tuo padrone?” La cagna mi guardava con occhi supplichevoli e si leccava i baffi: aveva fame. Era magra da far paura e aveva un zampa malconcia: intuii che aveva partorito nella spelonca e che aveva “tirato avanti” rubacchiando nei pollai fino a finire in qualche maledetta tagliola. Evidentemente, era però riuscita a liberarsi e, zoppicando, si era trascinata fino alla tettoia per nutrire i suoi due cuccioli superstiti. Gli altri erano probabilmente morti di stenti, o erano finiti in pasto ai predatori. Quando le portai del pane e del latte divorò tutto in pochi secondi e lasciò la ciotola pulita come uno specchio: avvertii gli zii che sotto la tettoia c’era un bella sorpresa e li chiamai a vedere i nuovi ospiti. In primavera il Barba Carlo seppe che la sua cagna era sana e salva si precipitò alla fattoria. Era fuori di sé dalla gioia:
“… pensavo che me l’avessero avvelenata – tuonò mentre la accarezzava – e… se prendo chi mette le tagliole qui attorno ci metto dentro lui!”
Nessuno stette a spiegargli che, forse, la Grisa era sopravvissuta quasi due mesi di uova altrui e, probabilmente, anche di galline un po’ distratte che si erano allontanate troppo dal pollaio. Proprio per evitare inutili questioni – detto tra di noi – il ritrovamento dei cuccioli non era stato reclamizzato: in paese qualcuno avrebbe potuto presentare il conto al povero pastore.
Quando la Grisa ritornò verso i monti al fianco di Carlo Alberto era fiera e ben pasciuta: “i piccoli… staranno con la madre fino all’autunno per imparare il mestiere, poi… uno dei due starà con te, per sempre”, mi disse. La parola fu mantenuta. Il cucciolo che – per il suo temperamento – già avevo battezzato Lucifero ritornò infatti al cadere delle foglie. Quando mi riconobbe, non volle più saperne di allontanarsi da me: forse il buon Carlo Alberto già gli aveva spiegato il suo destino.
A quei tempi, a Valpiana, i cani da pastore non erano utilizzati e, tra i nativi, non vi era anima viva che fosse in condizione di addestrarne uno. Quando gli animali lasciati al pascolo non volevano saperne di rientrare capitava di assistere a scene tragicomiche che, a volte, mettevano a dura prova le relazioni sociali. Un giorno, ad esempio, le quattro pecore di una vecchietta finirono accidentalmente in una vigna: mentre si ingozzavano di uva matura, la padrona le prendeva a bastonate e il proprietario del fondo, nel tentativo di cacciare gli intrusi, urlava tanto forte che pareva uscito di testa. Un buon cane pastore in pochi secondi avrebbe portato quelle pecore ingorde lontano dalle tentazioni e la questione non sarebbe finita davanti al sindaco di Borgofranco, con tanto di minacce di denuncia da parte del proprietario della vigna. A Valpiana, infatti, solo i montanari scesi dall’Alta Valle che si dedicavano all’allevamento sapevano servirsi di un cane pastore: i nativi preferivano dedicarsi alla coltivazione dei loro terreni e, come già detto, molto spesso lo facevano nelle ore libere da altri impegni di lavoro.
Foto e testo: Franco Gray – Disegno di Edoardo Campagnolo