Il castagno nell’economia e nelle tradizioni
Il legname e i frutti del castagno rappresentavano una voce importante nell’economia agricola delle nostre zone: ancora nel secondo Dopoguerra le castagne entravano infatti nella dieta delle persone e degli animali e dovevano essere conservate per lunghi periodi. Tra le tecniche utilizzate per distruggere le larve che si annidavano nei frutti (i “bigatti”) troviamo i trattamenti con il fumo. Le “ca’ d’la fum” erano piccole costruzioni strutturate su due piani, il secondo dei quali era costituito da un graticcio destinato alle castagne da affumicare. Al piano sottostante si accendeva un fuoco alimentato da foglie umide e rametti affinché il fumo, imprigionato tra le mura, avvolgesse per qualche giorno i frutti appena raccolti e ne uccidesse i parassiti, muffe comprese.
Non tutte le famiglie potevano però disporre di una simile struttura e per le piccole quantità di prodotto la gente si arrangiava come poteva, magari affumicando le castagne in sacchi di tela appesi sopra il camino o ponendole su graticci sistemati sulla stufa a legna, la nota “economica”. In questo caso, a snidare le larve avrebbe provveduto il calore: i bigatti infatti lasciavano infastiditi le accoglienti castagne in cui erano nati e, alla ricerca di una via di fuga, «qualche volta finivano direttamente nella minestra.» Detto per inciso, pare il caso di ricordare che la minestra così “condita” non era affatto buttata.
Dopo essere state essiccate le castagne vanno sbucciate. Un tempo la gente si accontentava di sbatterle in un sacco, poi erano conservate all’asciutto pronte per entrare in cucina dove – dicono gli anziani – erano utilizzate per «scacciare la più grossa, far festa e farci passare l’inverno.» Nei loro discorsi i riferimenti alla scarsità alimentare dei tempi magri sono evidenti.
Il legno di castagno era utilizzato in vari modi. Con le parti prive di difetti si fabbricavano mobili e serramenti molto resistenti, simbolo di arte povera ma destinata a durare almeno una vita. Occorre inoltre ricordarne l’impiego nelle travature: le orditure in castagno dei tetti sono praticamente indistruttibili e sopportano senza problemi qualche breve infiltrazione d’acqua. Veniamo infine alle botti: se costruite in quercia sono più pregiate, ma a quelle di castagno ancor oggi viene riconosciuto almeno il merito di durare a lungo e di conservare bene il vino. In Dialet e kustümmi ad Gatinèra il Gibellino sostiene che il castagno selvatico era un buon alleato dei vignaioli perché dava “pali da vigna di ottima durata. Dai tronchi invece si ricavano serramenti, botti, e attrezzi da cantina”. Parlando poi del governo dei boschi, ci porta in un altro mondo…
Gli “arbu” – Accanto al castagno selvatico, troviamo le varietà coltivate. I grandi castagni innestati, gli arbu, sono ancora tra di noi a ricordare il lavoro e le tradizioni di un tempo: sopravvivono qua e là, spesso nelle zone marginali in cui fino a qualche decina d’anni fa si falciava l’erba e si raccoglievano le foglie secche da utilizzare come lettiera per gli animali. Sin dal mese di giugno oltre all’ombra non era raro trovarvi qualche porcino, a ottobre le castagne cadute al suolo diventavano leccornia e occasione di festa. Si può pertanto affermare che gli arbu ricompensavano con generosità le attenzioni di cui godevano. L’industrializzazione e la conseguente progressiva scomparsa della figura dell’operaio-contadino hanno però portato all’abbandono del territorio. Per capire lo stato di degrado di alcuni boschi, occorre inoltre ricordare i danni provocati dagli incendi che fino agli anni Ottanta del secolo scorso affliggevano colline e baragge: i segni del fuoco sono ancora ben evidenti sia sulle ceppaie che sui tronchi degli alberi sopravvissuti.
Le malattie del castagno
Per il castagno, l’abbandono del territorio non è il solo problema da risolvere. Gli scambi commerciali hanno infatti portato, insieme alle merci, nuove malattie.
Il cancro della corteccia – Il cosiddetto cancro della corteccia dalle nostre parti arrivò nel Dopoguerra, forse in un tempo in cui il bosco non aveva più una grande rilevanza economica. Quando si notò che i nostri castagni selvatici presentavano vistose screpolature tanto sui tronchi giovani quanto sui rami la nuova malattia fu definita «nauta rugna»o meglio«’na purkarìa ‘rivà ad la Merica», alla stregua della peronospora. Si trattava dell’Endothia parasitica, un fungo microscopico che negli Stati Uniti aveva già fatto danni incalcolabili. Approdato in Liguria nel 1938, aveva subito iniziato a colonizzare nuovi territori: dopo gli oceani neppure le montagne erano riuscite a fermarne la diffusione. L’impatto iniziale fu abbastanza preoccupante: mentre l’Endothia provocava la morte per disseccamento di intere ceppaie, nessuno era in grado di prevedere se i castagni selvatici delle nostre colline avrebbero saputo resistere al parassita.
Il fungo, sviluppandosi tra la corteccia e il legno, impedisce la corretta circolazione della linfa. I danni che provoca sono ben visibili, soprattutto nelle zone soggette a forti grandinate: i suoi organi riproduttori penetrano infatti nella pianta attraverso le piccole lesioni. Dove le avversità del clima si sommano alla povertà del terreno la “rogna delle piante” spadroneggia. Ora il fungo è meglio conosciuto come Cryphonectria parasitica, ma questo ha importanza solo per gli scienziati: alla gente interessa sapere come sono andate le cose e come le piante abbiano saputo reagire. A ben guardare, possiamo affermare che i coriacei castagni selvatici, per quanto martoriati e segnati, in genere si dimostrano capaci di sopravvivere nonostante la presenza di un ospite tanto invadente: è evidentemente in atto un processo di adattamento che riesce a contenere il danno del parassita venuto da altri mondi.
Il mal dell’inchiostro – Per quanto riguarda le altre malattie del castagno, occorre ricordare anche il cosiddetto mal dell’inchiostro. Tale nome trova giustificazione nel fatto che alla base del tronco delle piante in sofferenza, asportando la corteccia, si trovano le vistose macchie nere oblunghe che a poco a poco necrotizzano i tessuti vitali. Anche in questo caso la colpa ricade su un fungo parassita importato: appartiene al genere Phytophthora, dell’ordine delle Peronosporaceae ed è un parente dei responsabili della malattie crittogamiche che funestano le vigne. Le piante colpite mostrano una chioma rada con foglie di colore verde smorto e producono pochi frutti. Ai loro piedi – detto per inciso – non si troveranno mai dei porcini.
I funghi parassiti – Tra i funghi superiori l’Armillaria mellea, il noto e ricercato ciudìn, sulle piante vive si comporta da parassita. Cresce soprattutto sulle ceppaie e manda in sofferenza l’albero che lo ospita provocando marciume radicale e ispessimenti della corteccia. Quando si insedia dopo i tagli, la sorte della ceppaia in genere è segnata: l’Armillaria ha infatti grande capacità di penetrazione e di diffusione. Dopo la morte della pianta, i ciudìn ritornano ancora, talvolta per anni. In questo caso, anziché agire da parassiti si comportano da saprofiti e ricavano sostanze vitali dal legno in decomposizione.
Un nuovo parassita
Il Cinipede galligeno
Da qualche anno a questa parte si è notato quanto la produzione di castagne selvatiche sia drasticamente diminuita. La colpa è di un insetto arrivato dall’Oriente – il Dryocosmus kuriphilus Yatsumatsu, ormai noto come Cinipede galligeno del castagno – che provoca la formazione di galle e il successivo disseccarsi dei rametti. Di fronte a questo parassita ci troviamo a vivere un’altra storia dal destino incerto: in patria riesce a fare pochi danni perché tenuto a bada dai suoi stessi predatori ma in Italia ha pochi nemici naturali e si è perciò diffuso con rapidità impressionante. In primavera invade di galle i nostri castagneti, siano essi selvatici o coltivati. Lo abbiamo individuato negli ambienti più disparati, persino nei parchi cittadini. È presente tanto sulle montagne valsesiane quanto nelle baragge e ha già attaccato gli gli ultimi arbu. La sua presenza compromette la fioritura e la successiva formazione del riccio, per cui si assiste a una drastica diminuzione della produzione di castagne.
Il cinipede e i nuovi germogli
Il ciclo del cinipede si ripete sempre uguale: non appena esce dalla galla, l’adulto va a depositare le uova proprio dentro le gemme più tenere. Il danno all’inizio è lieve perché la pianta non reagisce subito ma nella primavera dell’anno successivo, quando la larva inizia a svilupparsi, si formano le famigerate galle e i processi metabolici della pianta sono compromessi. Siamo di fronte a un processo in crescendo che finisce per provocare danni notevoli.
Riproduzione e crescita del cinipede
1. In estate l’insetto depone le uova nelle nuove gemme di castagno. Le larve si svilupperanno l’anno successivo.
2. Le uova rimangono nella gemma per tutta l’estate, l’autunno e l’inverno.
3. In primavera, con la ripresa vegetativa, la larva di cinipede si sviluppa e appaiono galle vistose sulle foglie.
4. Nel corso della bella stagione la larva cresce.
5. Dapprima di colore bianco poi grigio e infine nero, dopo la metamorfosi estiva il cinipede è pronto a uscire dal bozzolo.
Il Cinipede galligeno appartiene alla famiglia degli imenotteri, la stessa che comprende api, vespe e formiche. L’insetto adulto è lungo solo 2,5 millimetri. Se a maggio sulle giovani foglie di castagno sono visibili i rigonfiamenti contenenti le larve, a giugno i rametti già cominciano ad appassire. Ai primi di luglio sui rami colpiti i fiori mostrano minore vitalità. Poco più avanti nel tempo, le foglie secche denunciano i danni del parassita e si nota uno sviluppo anomalo del riccio che dovrebbe produrre le castagne. In autunno, le foglie anziché cadere rimangono sui rami, insieme ai ricci vuoti e alle galle ormai disseccate.
Riduzione e adattamento da “Dieci castagni da salvare“, ricerca sul campo di Michela Ferrara e Franco Gray (all’anagrafe Franco Bertola)
Che fare?
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