Questa storia fa parte della serie “Racconti etnografici” ed evoca i tempi in cui le risorse (anche alimentari) erano scarse. Per integrare la dieta, in quasi tutte le famiglie legate alla terra si allevava un maiale da macellare con i primi freddi, in genere verso novembre. L’evento era considerato alla stregua di una festa dell’abbondanza ma… i prodotti che se ne ricavavano dovevano durare a lungo: l’economia agricola – e in particolare quella delle zone di montagna – non poteva permettersi sprechi…
In alto – Tempo presente: un luogo noto e frequentato – Nella foto uno degli alpeggi più conosciuti e frequentati dell’Alta Valsesia. Siamo all’Alpe Fum Bitz, nei dintorni del Rifugio Pastore: un alpeggio un tempo frequentato per lo più dai malgari. Ai giorni nostri il turismo e le attività silvo-pastorali convivono: il rifugio, l’ecomuseo del Parco Naturale Alta Valsesia, la presenza di un orto botanico attirano parecchi visitatori. Per sottolineare il successo del luogo basti pensare che, per evitare affollamenti e problemi di parcheggio, un bus-navetta porta gli escursionisti fino verso la fine della strada asfaltata. L’alpeggio si raggiunge pedibus calcantibus: partendo dai pressi del ponte sulla Sesia, ci si arriva seguendo un sentiero che inizia costeggiando le sponde del fiume. Proseguendo sulla strada asfaltata si raggiunge invece il tracciato che, dall’Acqua Bianca e sfiorando i dirupi che si affacciano sulle caldaie del fiume, raggiunge infine il pianoro. Ottime le informazioni fornite nel Web dal C.A.I e da altri Enti territoriali…
A lato – Un ricordo che si dissolve – La foto (di Corrado Martiner Testa) è stata scattata all’Alpe Piano dell’Erba, nel territorio di Campertogno. La costruzione lascia intuire un passato basato su un’intensa attività agricola e silvo-pastorale. Sulla sinistra, il piccolo fabbricato ormai in rovina era probabilmente destinato alla stabulazione degli animali domestici…
A fianco delle vecchie malghe – soprattutto di quelle ormai abbandonate – tra i ricordi lasciati da un tempo ormai quasi dimenticato si possono notare i ricoveri destinati al maiale domestico, ovvero a quella sorta di risorsa vivente in grado di trasformare i sottoprodotti delle attività agricole, le ghiande le castagne e le erbe selvatiche, in grasso, lardo e carne di qualità. La carne migliore – anche a quei tempi – era trasformata in ricchi arrosti e in salami di pregio. Nelle fattorie del maiale non si buttava nulla: persino le setole (se non erano vendute) finivano sotterrate nelle buche destinate alle piante da frutto: in questo modo, insieme alle unghie e alle ossa accuratamente spolpate, diventavano concime.
Ai giorni nostri uccidere un animale – sia pure per nutrirsene – solleva spesso parecchie problematiche. Con questo articolo non si esprimono giudizi, si vogliono solo ricordare tempi duri e strategie di sopravvivenza che sembrano appartenere alla sfera delle “cose dell’altro mondo”. E in verità – con lo scopo di gettare un ponte tra il passato e il presente – si evocano mondi e tempi ben diversi da quelli attuali…
Il tempo presente vede ancora la macellazione casalinga del maiale, ma ciò che se ne ricava può essere destinato solo all’autoconsumo. In Valsesia abili artigiani che operano in apposite strutture producono invece – spesso seguendo le ricette arrivate fino ai giorni nostri dalle tradizioni locali – i salumi destinati alla vendita. I tempi sono cambiati e l’economia delle famiglie rurali è ben diversa da quella della narrazione che segue, ma il ricordo dei tempi duri merita di essere evocato. Ancora nel periodo storico immediatamente precedente il cosiddetto “miracolo economico” nelle famiglie contadine la macellazione del maiale era considerata una sorta di rito, una cerimonia da “giorni grassi”, ovvero dell’abbondanza. Il lardo e gli insaccati aiutavano infatti a superare l’inverno, anche se dovevano essere consumati con parsimonia…
Da ” I racconti della malga”: i salami del Barba Gàgia
Quand’ero ragazzino sentivo spesso i “grandi” raccontare della loro frugale infanzia. I personaggi che gli affabulatori facevano rivivere venivano da un passato lontano, quasi indefinibile. Le storie riguardavano i raccolti, le vicende umane e l’allevamento degli animali domestici: tra questi il posto d’onore era riservato al maiale che veniva sacrificato all’inizio dell’inverno. Nei dintorni di Scopa – un paese tra i monti della Valsesia – il macellaio ufficiale (il “masalard”) era il “Barba Gàgia”. Me l’hanno descritto come uomo di poche parole, ossuto e con una pipa perennemente spenta tra i denti che – a suo dire – non accendeva per non “dare disgusto” ai salumi che andava preparando. In realtà a quei tempi il tabacco era un bene di lusso che, a suo dire, avrebbe potuto provocare la tosse mentre… il risparmio era un dovere morale e il lavoro doveva essere svolto senza perdite di tempo. Però – facevano notare i soliti maligni – ogni volta che gli era offerta una presa di tabacco… smetteva di lavorare, prendeva un tizzone dal camino e usciva fuori a tirare un paio di boccate.
Il motto del Barba Gàgia era “l’anno è lungo”, ovvero “l’ann l’è lunk“. Il Barba pronunciava la parola “lungo” con diverse enne, a sottolineare la durata del tempo. Se era vero che l’anno era “lunnnnnk”, i suoi insaccati però non lo erano per niente: preparava infatti salumi di ridotte dimensioni perché “… parè i salaim… i duru pusé, i purcéi i fan resa e i fei mia indigistiun…”. Detto in italiano: “… in questo modo i salami durano più a lungo, i maiali fanno buona resa e… non si fa indigestione”.
Il Barba Gàgia operò nel periodo tra le due guerre mondiali in paesini tra i monti dove gli scambi commerciali erano scarsi, la terra da coltivare poca e avara. Di conseguenza la gente cercava spesso lavoro altrove: chi conosceva bene un mestiere andava all’estero, talvolta a svolgere lavori qualificati. Dei guadagni arrivati da lontano esistono testimonianze in costruzioni d’alpeggio che denotano la buona disponibilità economica di chi li fece costruire. Altri abitanti delle zone montane si accontentavano invece di scendere a valle per la vendemmia, per la monda del riso o per altre attività stagionali. Vista la penuria di risorse, nei paesi si mettevano in atto accorgimenti economici degni di un manuale di sopravvivenza: l’utilizzo dei prodotti della terra e dell’allevamento non doveva andare sprecato e ciò che non poteva essere consumato a tavola veniva utilizzato per nutrire i frugali maiali. Per quanto riguarda la loro macellazione, nella preparazione dei sanguinacci entravano le patate lesse prodotte in famiglia, il lardo era gelosamente conservato sotto sale in grandi olle di terracotta e aromatizzato con le erbe selvatiche. Detto in breve, i prodotti che oggi sono considerati vere e proprie specialità ( e non solo della Valsesia) hanno origini antiche e spesso umili…
Foto sotto – Panorama di novembre dalla Sesia – Siamo nel Comune di Scopa, in Valsesia. La foto mostra la zona in cui – presumibilmente intorno agli anni Trenta del Novecento – operava il mitico Barba Gàgia del racconto. Per quanto riguarda le località e le persone, devo dire che riflettono emozioni personali e famigliari: la mia nonna materna, ad esempio, era una Bana di Campertogno che, con il matrimonio, si stabilì a Scopetta (suo padre – di origine bergamasche – faceva il carbonaio: da lì forse venne il nome della località “Carbunina dal Bana”). Anche le foto della pesatura rappresentano due persone a me molto care ora scomparse…
I racconti dei periodi duri lasciano il segno. Cambiati i tempi, la lezione del Braba Gàgia, il “masalard” dei tempi magri, rimase. Nell’immaginario familiare, quel personaggio venuto da un tempo molto lontano continuò infatti a essere evocato e finì per diventare una delle (tante) metafore di condanna del gozzoviglio.
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Romanzo Etnografico
Franco Gray (all’anagrafe: Franco Bertola)
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